Corbara , frazione d’Italia facente parte del Comune di Sessa Aurunca , in Provincia di Caserta (Campania) è un piccolo borgo che dista 2,36 chilometri dal comune di Sessa, sorge a 233 metri sul livello mare.  Paese molto antico con tanta storia dimenticata, mai insegnata o mai conosciuta del tutto, però, come si evince da alcuni testi antichi, può vantarsi di aver dato i natali a personaggi di un certo spessore e a prelati vari che si sono succeduti nel tempo, come titolari di parrocchia e guide spirituali delle anime del paese. Attualmente la popolazione è di poco inferiore ai duecento abitanti, da uno degli ultimi conteggi, si contano circa cento ottanta anime che vi risiedono in modo stabile, fra piccoli giovani, meno giovani e vecchi, ma con tanti cani e gatti, senza tener conto di tutti coloro che si sono trasferiti in altri posti d’Italia e del mondo.
Sorge su di una bellissima ed amena collina, prima assai più bella e fertile, forse nata da un miracolo compiuto dal vulcano della vicina Roccamonfina, i durante le sue eruzioni catastrofiche circa cinquantamila anni fa ed oltre, adesso spento. Staccatosi dalle pendici dei Monti Lattani, fra poggi, piccole balze e saliscendi vari, disteso come un vecchio addormentato, proprio come recita la canzone dei Ricchi e Poveri, “Che sarà”, il paese vive e si distende sulla zona collinare ma con il piacere di tutti quelli che ci hanno abitato e tuttora ci dimorano è, tutta pianeggiante.
Ricca di giardini colorati, abbondante di frutta di specie diversa, attraversata da rii e limpidi ruscelli,
gradatamente si avvicina alla zona piana che da Sessa si disperde avvicinandosi al mare.
Circondata da zone rocciose, nella gran parte tufacee, ricoperte e colorate di giallo dalle inconfondibili e profumate ginestre, dai tanti cespugli con i profumatissimi fiori bianchi del mirto, molto ornamentale e ricercatissimo per usi culinari, per i distillati e digestivi vari.
Non manca l’erica multicolore ed il preziosissimo origano che nasce spontaneo in tutti gli angoli delle zone boschive esposte al sole, oltre alle tante erbe e piante aromatiche, tipiche della macchia mediterranea. Boschi con querce di varie specie, antiche e statuarie, secolari castagni, vigneti e uliveti fanno da preziosa cornice a un quadro dipinto da una mano Divina ma oltraggiato dalla mano sadica, peccaminosa e violenta. dell’uomo.
Libere, pulite, incontaminate, hanno subito sciaguratamente per mano di esseri malvagi, una triste e malvagia trasformazione. Con mezzi moderni e pesanti, con coltivazioni promiscue, usando diserbanti e veleni vari, in nome di un facile ma incerto guadagno, sono state sfregiate e sfruttate per alcuni anni e abbandonate poi al loro triste destino, non potendo più riavere il sorriso ed il fascino di una volta.
Sorgendo nelle vicinanze del mare da cui spira la fresca e salmastra brezza, prossima alla catena del monti Lattani dalla quale discende aria salubre e rigenerante sia d’estate che d’inverno, gode di clima mediterraneo, pertanto, gli inverni sono miti e piovosi e le estati molto calde e particolarmente asciutte. Baia Domizia, con il suo mare azzurro, assieme al Golfo di Gaeta, offre giornalmente uno spettacolo meraviglioso, soprattutto di sera con l’incanto della luce della lampada del vecchio faro e delle lucine tremolanti di tutti i palazzi, di tutte le strada ed angoli del litorale.
Per quanto riguarda la sua storia, di Corbara non si hanno riferimenti del tutto attendibili per risalire alla sua origine, comunque le notizie si perdono nel tempo, dai pochi testi scritti, di autorevoli ed insigni scrittori locali fra i quali Mons. Diamare, Vescovo di Sessa Aurunca, si appura che il suo nome non è quello originario perché ancor prima e nei secoli, sembra abbia subito delle trasformazioni, potrebbe essere Corbaja o Corvara ipotizzando che all’epoca nella zona proliferavano corvi e cornacchie. Sempre facendo fede a questi testi, Corbara di sicuro era conosciuta dagli antichi romani che ne apprezzarono la sua bellezza, la mitezza del clima, cantandone spesso le lodi. Attualmente piccolissimo borgo, diversamente da anni fa, quando era più densamente popolato, come riportato negli albi comunali e
trasmesso oralmente dai nostri avi. In questa frazione di Sessa Aurunca, esisteva la casa canonica e come riportato nell’opera “ Chiesa di Sessa Aurunca”, scritta nel 1906 da Mons. Diamare antico vescovo di Sessa, la Chiesa di questo villaggio era assai piccola, successivamente ampliata con una bella sagrestia, con attigua la casa canonica ed annesso un ampio giardino, la chiesa è dedicata San Clemente Papa Martire che si festeggiava e tuttora si venera il 23 novembre, proprio nel giorno della sua ricorrenza, come la festa della Madonna delle Grazie e del SS. Sacramento.
Andando molto più a ritroso nel tempo, risalendo al 1032 nella bolla di Atenulfo, antico arcivescovo di Capua, secondo Leone de Silvestro, la chiesa appellata come “Santa Maria de Flavi”, corrisponderebbe a quella di Corbara, (notizie attinte sempre da (La Chiesa di Sessa Aurunca” 1906, opera scritta da Mons. Diamare, Vescovo di Sessa Aurunca).
Il termine Corvara, incomincia a comparire nel XV secolo in epoca aragonese. Come si evince da queste fonti storiche anche se poche ma di estrema importanza, l’origine di Corbara e la sua storia si perde nel remoto.
Sotto la protezione di San Clemente, regnava in Corbara una vitalità esemplare, la gente laboriosa, tutta dedita a svolgere assiduamente attività diverse, dall’agricoltura che primeggiava all’artigianato, costante e famoso. Di certo non mancavano altri mestieri, esercitavano la propria attività, il barbiere, il falegname, l’arrotino, il fabbro e maniscalco, il calzolaio, il sarto, l’oste (a cantina) e due botteghe di generi alimentari e diversi con annessi tabacchi e tutti con la loro tenacia e volontà, oltre alla propria partecipavano alla economia del paese.
L’ARTE ANTICA!
Il fiore all’occhiello dell’economia del paese, anche se contenuta, era l’antico mestiere dei “Ruagnari”, arte antica e come la storia insegna già nota all’antico popolo degli Aurunci ancor prima dei Romani. “La Terracotta”, questa nobile arte consisteva nella fabbricazione di stoviglie varie con la creta, boccali, pignati, tegami, tortiere, scolapasta, scola pesce, cutturi ed altro ancora. Gran parte della zona circostante Corbara, era ricca di piccole cave da cui con estrema fatica, usando zappe, picconi e pale e le proprie braccia, gente del posto che fra l’altro conosceva molto ben la zona, estraeva la creta, esistono ancora questi giacimenti, ma da decenni sono sepolti da vegetazione incolta oppure si ritrovano trasformati per altri scopi.
Dopo averla estratta, la creta veniva trasportata in paese da donne arruolate per detto lavoro dietro
modico compenso. Era dura la vita pure per loro, per racimolare qualche soldo in più accettavano qualsiasi lavoro, anche se massacrante.
Con canestri (cestriegli) colmi di ciottoli di creta dal peso fra i venticinque- trenta chilogrammi, appoggiati sulla testa protetta solo da uno straccio arrotolato ( la sparra) per evitare dolore ed eventuali ferite, trasportavano la creta, in fila proprio come le donne africane quando trasportavano contenitori pieni di acqua sulla loro testa per intere giornate, senza sosta, dal primo mattino fino al tardi pomeriggio, con brevipause, solo per mettere qualcosa sotto i denti.
La creta, veniva depositata in asciutti e capienti locali per poi essere cacciata all’aria aperta nelle giornate assolate e calde, tarda primavera – estate, periodo ideale per farle raggiungere il giusto grado di essiccazione. Si stendeva al suolo in modo circolare e così, lasciata per diversi giorni, la cosa diventava problematica nelle giornate umide e piovose soprattutto nella stagione autunno inverno. Avvenuta l’essiccazione, veniva battuta con pesanti arnesi di legno, “I magli”, così frantumata si passava attraverso il setaccio, setacciata finemente eliminando residui grossolani o altre impurità. Ciò avveniva alle prime ore del mattino, appena dopo l’alba o subito dopo, c’era comunque qualche artigiano magari insonne che si svegliava prima degli altri per iniziare il lavoro, di lì a poco era una sveglia generale e tutti pronti freneticamente a frantumare i ciottoli di creta.
A distanza di molti anni, mi sembra ancora di sentire il boato provocato dai magli sbattuti dai “ruagnari” con forza e violentemente a terra sui ciottoli di creta, una postazione si trovava proprio sotto le finestre di casa mia, delle volte il rumore si univa al rintocco delle campane, era come sentire uno strano concerto, che adesso paragonerei a quello moderno dei “Bottari.
Dopo aver frantumata e setacciata la creta, parte di questa veniva gettata in una capiente vasca ( perula) antico gergo dialettale, ricavata in qualche angolo della parete del laboratorio e mista con acqua, dopo aver aggiunto un quantitativo di creta lievitata, già preventivamente lavorata finemente e conservata appositamente, veniva impastata tenacemente dalle mani forti e laboriose del terracottaio, fin quando diventava soffice e morbida, proprio come la massaia prepara l’impasto per il pane. Quando l’impasto diventava lavorabile, arrotolato come un grosso pallone, ne ritagliava un pezzo alla volta, questi si poggiava su un’apposita pietra grossa, liscia e dura attaccato ad una parete, il conciatoio, (conciaturo) per essere proprio meticolosamente conciata. A seconda della quantità dei pezzi e della misura da fare, l’artigiano ritagliava ancora da esso pezzi come pani arrotolati che poggiava singolarmente su una tavoletta di legno circolare denominata “priessulo”, situata sulla parte superiore del tornio, congiunta tramite un asse di legno ad un’altra tavola di legno, circolare ma molto più grande, doppia e pesante da far girare, la ruota “ a
rota”.
Seduto sopra una tavola robusta, postazione del lavoro, ricoperta delle volte da qualche cuscino, fissata al muro e posta orizzontalmente, il ruagnaro incominciava a farla girare usando un solo piede fra l’altro scalzo, a seconda se era destro o mancino, più delle volte calzava scarpe flosce, tipo quelle di pezza onde evitare il sorgere di calli o già col piede calloso. Spingeva la ruota in modo adagio raggiungendo gradualmente una certa velocità fino a raggiungere quella necessaria per modellare con le mani il palloncino di creta dandogli la forma del pezzo che doveva costruire, come da richieste dei commercianti della zona.
Man mano che i palloncini di creta venivano trasformati in stoviglie, venivano staccati dal priessulo situato sopra la ruota, con un filo sottilissimo di metallo, dopo di che appoggiate su una tavola abbastanza capiente si trasportavano all’esterno del laboratorio per esporle al sole e farle asciugare, quando la temperatura esterna era troppo alta e con molto sole, soprattutto nel periodo estivo, per evitare che si spaccassero, era
preferibile lasciarle in una zona a mezza ombra ed in questo modo il lavoro procedeva per tutta la giornata finché la creta impastata non fosse tutta consumata.
I modelli delle ruagne erano vari, tutti lavorati e modellati dalle mani sante e delicate del ruagnaro,
compreso i coperchi che variavano a seconda della misura del pezzo.
“Le cupercie,” ( coperchi), avevano una doppia funzione, oltre a coprire i relativi contenitori , quelle di
misura large, nelle nottate invernali, particolarmente fredde, infuocate con la fiamma del camino a tal punto da diventare particolarmente roventi, in mancanza di stufe a gas o di riscaldamenti elettrici, avvolte da sottili e candidi asciugamani venivano usate come scaldaletto, strofinandole sulle lenzuola gelide, qualche minuto prima di coricarsi.
Non finisce qui, la procedura lavorativa anche se snellita era ancora lunga e complessa. Tutti i pezzi
lavorati essiccati alla perfezione erano pronti per la rasatura del fondo, accorgimento questo utile per eliminare la creta in eccedenza dal fondo e rendere il pezzo perfetto e più stabile. La rasatura veniva effettuata con una piccola e particolare rasoia , “ ( a ferruccia), un pezzo di ferro non lineare, leggermente curvato, molato, reso tagliente solo da un lato.
Trascorsi diversi giorni, fra lavori preventivi, essiccatura, rasature, le stoviglie dovevano passare attraverso altra fase, la più importante, prima di concludere tutto il lavoro.
Tutti i pezzi lavorati a seconda della capienza venivano immessi sistematicamente e con criterio onde evitarne la rottura, in una grossa fornace a legna, dove subivano una prima cottura con il fuoco prodotto da grosse fascine, frasche e rami secchi raccolti anzitempo.
Il giorno successivo dopo aver fatto raffreddare la fornace, questi pezzi venivano sfornati lasciandoli raffreddare , il tardo pomeriggio o il giorno successivo prima di sottoporli ad una seconda cottura sempre nella stessa fornace, dopo averli controllati singolarmente eliminando quelli lesionati, venivano “npetanati” internamente, trattati con la “ petana”, vernice sciolta in un certo quantitativo di acqua, che dopo essere passati per la seconda cottura ad altissima caloria, li faceva diventare lucidi, come smaltati internamente, privi di impurità e pronti per gli usi consentiti dalla legge.
La vernice con cui venivano trattati, era polvere colorata, piombo “ chiummo”, sostanza chimica abbastanza velenosa e pericolosa per l’organismo degli stessi ruagnari e dei familiari che la respiravano lavorandola. Molti di questi lavoratori, purtroppo sono morti per gravi infezioni cancerogene in primis ai polmoni, cosa ignorata in un primo tempo e scoperta solo dopo i primi decessi dei più sfortunati. Infatti queste morti furono attribuite all’uso del piombo non controllato e fu causa della sospensione temporanea del mestiere disposta dalle autorità sanitarie e giudiziarie fino a quando il tipo di vernice pericolosa, venne sostituita da un altro prodotto non cancerogeno.
Con la cottura finale e la selezione dei pezzi, eliminando i difettosi spolverati e raggruppati, per tipo e misura, venivano accantonati in un locale asciutto e quantomeno pulito in attesa di essere
commercializzati.
Non sempre si riusciva a smerciare il prodotto con una certa celerità pertanto bisognava pazientare per trarne l’utile profitto.
A Corbara come detto innanzi non esistevano strade, le uniche vie di comunicazione con il mondo esterno erano solo sentieri e vie mulattiere, ciò era penalizzante sia per la vita nel piccolo borgo che per le persone che lo abitavano e soprattutto per l’economia locale, il prodotto veniva richiesto dai pochi, commercianti della zona in minima quantità e neanche a prezzo di mercato, il grosso delle forniture, aspettando tempi migliori venivano dalle richieste fatte da compratori di altre province, delle volte di altre regione e più numerose redditizie.
Concordate le richieste con i relativi prezzi e dopo che tutta la partita della merce che abbisognava era pronta, questi previ accordi col ruagnaro venditore, si presentavano per il ritiro, impossibilitati a recarsi sul posto per mancanza di rete stradale, attraversando Cascano, paese limitrofo, i commercianti facevano sosta nella vicina frazione di San Felice, raggiungibile da Corbara attraverso una strada mulattiera. Donne di Corbara, ingaggiate dai terracottai ricompensate in base al giro di affari del momento, con una grossa canestra sulla testa, ( cuofanella) colma di pezzi di terracotta di varie misure, a piedi e allegramente nonostante la fatica, li trasportavano a San Felice, dove ad attendere c’era il salmiere per caricarli su un grosso carretto trainato da muli o cavalli sostituiti poi da mezzi a motore.
Quanti sacrifici per vivere, se non altro più dignitosamente, ma nei periodi di crisi qualsiasi espediente era valido per non essere sopraffatti dalla disperazione e dalla miseria.
Come gli anziani del paese raccontavano e raccontano tuttora e come la storia insegna, già prima delle guerre mondiali, durante e anche dopo, gli anni furono di crisi profonda e di estrema difficoltà economica ed in questo stato di fatto anche il misero commercio della terracotta fu vittima di questa gravissima recessione.
Non si riusciva a barcamenare, tutto fermo, ma come recita ancora un antico detto, “a mali estremi estremi rimedi”. Si inventò la vendita porta a porta, più che una vendita, era una forma di baratto, non si chiedevano soldi, ma beni di prima necessità, quali olio, farina, grano, legumi ed altri prodotti alimentari che scarseggiavano nelle case, ma di non tutti era questa condizione.
Donne coraggiose ed intraprendenti, decise in nome del bisogno, con la cuofanella sulla testa, piena fino all’inverosimile di pezzi assortiti di terracotta, a piedi si recavano nei paesi del circondario, altre volte oltre macinando chilometri sia d’estate sotto il sole cocente che d’inverno con il freddo, con il gelo e con la neve, uscendo dalla propria abitazione al mattino presto e rientrare stremate dopo il tramonto per portare a casa qualche alimento, più fortunate e soddisfatte, le volte che ritornavano a casa con le canestre piene di viveri.
Questo sistema di vendita, sacrificato e commovente, si ripeteva per diversi giorni alla settimana,
protrattasi fino alla fine degli anni sessanta, inizio del progresso o del boom economico, anni dei quali, riserbo gelosi ricordi.
Arte bella, dura, onesta, nobile che è stata praticata da gran parte degli abitanti di Corbara tramandandosi per secoli da padre in figlio, resistendo nel tempo fino ai giorni nostri, ma come tutte le cose da quando il mondo ci governa, hanno un inizio ed una fine e come tali anche questa arte eccelsa, ha cessato di esistere circa un decennio fa con la prematura scomparsa di Cesare, uno degli ultimi artigiani ruagnari di Corbara.

A cura di Mario Caranfa per Generazione Aurunca